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SPECIALE Le verità

verita_locandinaHirokazu Kore’eda non poteva che girare il suo primo film europeo in Francia, dove le radici del cinema sono più profonde e – non temo smentite – paese d’elezione già prima di girare Le verità e prima anche del trionfo alla Croisette nel 2018 con Un affare di famiglia. Perché inclinazioni europee (e francesi) nel cinema di Kore’eda sono affiorate nelle trame delle sue sceneggiature, in alcune scelte di messa in scena, nella vicinanza ai suoi personaggi. Adesso, in terra francese, queste inclinazioni si saldano una volta per tutte in un film che soffre a tratti ricorsi narrativi, citazioni più o meno esplicite, fino alla dichiarazione di apparentamento, come dire che il regista giapponese sta operando una sintesi tra scuole diverse. Un tuffo europeo con livello di difficoltà altissimo, per almeno due ragioni: l’elaborazione di un racconto a scatole cinesi, dove il cinema contiene cinema (ancora una volta metacinema dunque), e la scelta di mettere al vertice del cast Catherine Deneuve, incarnazione del divismo francese, tra le poche attrici al mondo (la Streep ad esempio) capaci di dilatare la carriera in forza dell’età, laddove spesso l’età costringe le attrici a ruoli marginali o alla marginalizzazione fino alla scomparsa dai set. Scegliere i copioni e imporsi nei copioni, con la consapevolezza che il passare del tempo può imbalsamare un attore, per difenire la propria stella evitando se possibile di cadere nel ridicolo o nella follia (la Swanson in Viale del tramonto), è l’illusione di longevità professionale di Fabienne, personaggio che Kore’eda taglia su misura per la Deneuve. O meglio, la Deneuve sembra divertirsi nel vestire un ruolo che le permette, non senza ironia, di creare coincidenze con la sua biografia, a cominciare dall’ossessione per un’attrice scomparsa a cui sfilò un ruolo, leggi in filigrana Françoise Dorléac, talentuosa sorella della Deneuve (per capirci la protagonista, bellissima da togliere il sonno, de La calda amante di Truffaut).
Alle prese con un copione che finge di non amare e diretta da un giovane regista che sul set tratta con sufficienza, Fabienne si cimenta in un film di fantascienza in cui è figlia di una donna che per sfuggire a una malattia incurabile vive nello spazio, dove il tempo rallenta, per tornare sulla Terra ogni sette anni. Per questo si ritroverà anziana con una madre giovane. Lumir (Juliette Binoche), la figlia di Fabienne, sceneggiatrice in la-verita-2America e moglie di un attore di fiction di serie B (Ethan Hawke), la raggiunge nella villa di Parigi appena in tempo per il primo ciak e per leggere il libro autobiografico che la madre ha scritto e pubblicato senza confrontarsi con Lumir. L’autobiografia si rivela romanzata e irrispettosa nei confronti di figure importanti nella vita di Fabienne: l’ex marito (un perdigiorno), il suo fedele assistente (mai citato), l’attrice scomparsa a cui Fabienne aveva fatto un torto (taciuto nel libro). Il confronto tra madre e figlia si colora di sfumature che passano dai toni caldi a quelli freddi e viceversa, in una dialettica che non scivola mai nello scontro ma che oscilla tra ricordi falsati dal tempo, verità parziali, ammissioni di colpa a denti stretti e difese strenue di scelte di vita (la professione che soverchia la famiglia). Tra le due ballano il marito frustrato e un po’ scialbo di Lumir (perché Hawke dopo Boyhood ha smesso di cambiarsi abito?), la figlioletta Charlotte, che vorrebbe diventare attrice, il padre di Lumir, che compare giusto il tempo di ricostruire un teatrino che sembra uscito da Fanny & Alexander, il compagno di Fabienne con la passione per la cucina, l’assistente che la lascia dopo la pubblicazione dell’autobiografia.
Kore’eda costruisce un rapporto dai contorni opachi, che si definisce sulla ricerca di piccole verità, ma che si infrange nei dubbi, nella parzialità con cui l’attrice riguarda al passato e nell’impasto tra vita e professione, tra immagine pubblica e privata, dove la maschera cinematografica esonda fino a cancellare i confini tra realtà e finzione. Molto di tutto questo risuona nel film come un deja-vu, a volte fastidioso. Anche il film ne film che diventa un transfert e uno specchio per Fabienne, con il tema forte dell’invecchiamento inevitabile e del confronto con una giovane attrice che nel copione recita il ruolo di madre eternamente giovane, non è proprio originale: si entra ed esce dal set come in Effetto notte, dove il set non è semplice lavoro ma cortocircuito esistenziale nella definizione di inquietanti simmetrie con la vita.


Se non è un Kore-eda minore, intrappolato nel fascino del cinema francese e sfidato da altre storie d’autori europei (primo fra tutti l’amato Bergman, come fu per Allen), poco ci manca. Perché una vicenda già raccontata diventi interessante, il regista giapponese lavora sull’ambiguità. Lo fa in sottotraccia, nelle pieghe della sceneggiatura, quando alla confessione dozzinale, alla maschera di cartapesta consegnata al pubblico dell’autobiografia inautentica, contrappone la scrittura vendicativa di Lumir, che non solo scrive per la madre il copione delle scuse da recitare all’uomo di fiducia, ma scrive un copione per Charlotte che reciterà da professionista un ruolo di nipote che aiuterà un lieto fine acido, perché in odore di falsità. Ancora una volta Kore-eda affonda il dito in un nucleo familiare per scoprire più inganni che verità. La famiglia disfunziona non per scelta, non per sfavorevoli coincidenze, ma perché la disfunzione è nella natura stessa della famiglia di sangue, luogo imposto per nascita e trappola (in quasi tutti i film precedenti).
Una famigliola giapponese inquadrata per pochi istanti in un bistrot, mi ricorda che dentro i confini nazionali il regista non esita ad usare deliziosamente la clava. Qui probabilmente c’è troppo fioretto.

Alessandro Leone

Le verità ti fanno male, lo sai…

L’intellettualismo è la malattia infantile del cinema d’essai. Mentre la critica da festival ne tesse lodi ed elogi, e anzi forse proprio per questo, l’autore ne approfitta per farsi autoritario, per incensarsi, per avvolgersi nelle spire arroganti della propria inarrivabile sicurezza. La la-verite-2019dimostrazione è già nel linguaggio: cinema d’essai, raramente d’autore, mai impegnato. Perché se dici le cose come stanno, e cioè che l’ultimo film di Hirokazu Kore’eda è incomprensibile ai più, soporifero per altri, lontanissimo e siderale rispetto ai bisogni delle moltitudini, allora il pubblico si fa bolscevico e barricadero, e al cinema non ci va proprio. Ma basta poco per ammorbidirne le asperità con i gargarismi della lingua francese, e sostenere cioè che “l’essai” sia l’irrinunciabile nutrimento per le menti illuminate, per i degustatori di caviale dal palato sopraffino, ed ecco che tutto cambia. Il pubblico del cinemino accorre ingolosito, i curiosi della parrocchia prendono posizione in prima linea, e tutti ad accaparrarsi un posto nella cinerassegna autunnale tra la castagnata di paese e la festa della zucca. È cinema d’essai, guai a parlarne male. L’ésprit de finesse dei francesi non si tocca, non si infrange, non si offende. Invece no, il cinema d’autore è uno schifo. Non il cinema di per sé, ma l’idea che sia ancora oggi così vergognosamente elitario, riservato a pochi privilegiati, classista tanto quanto il cinema di papà contro cui Truffaut e soci levavano penne e scudi. Prima di tutto perché andare al cinema è un piacere della mente e un desiderio del corpo, non dissimile dalla necessità di cibo, donne o gabinetti funzionanti. Poi perché tale piacere, o tale impellenza, si esplicita nel desiderio di condivisione con il la-verite-la-verita-film-hirokazupubblico, con i propri simili, in un’esperienza che non per forza deve dirsi collettiva, ma che collettiva sia almeno nella possibilità di parlarne. Le verità, non una ma molte, quindi nessuna, è semmai il grado nullo della condivisione: non si discute, si sta muti in ginocchio sui ceci ad assorbire scudisciate di elucubrazioni in porzioni non dissimili dalla cura Ludovico. Zitto e bevi, ingozzati e mangia e mastica cultura fino a schiattare, plebeo analfabeta che non capisce i giapponesi né parla il francese. In Kore’eda c’è la mitologia del nuovo cinema festivaliero, anzi egli ne è un menhir levato agli astri che in solenne contemplazione dell’immenso riscrive la cosmogonia dell’Autorialità: il nulla più insondabile, l’abisso metalinguistico con cui le carezze del Sol Levante sfiorano radenti lo snobismo di Francia. Dialogo madre e figlia con interferenze. La Deneuve fa l’attrice e si ritrova a provare il copione di un film di fantascienza che riguarda proprio il rapporto irrisolto madre e figlia. Perché di fantascienza? Perché così l’abile regista può sdoppiare, triplicare, persino quadruplicare i propri personaggi, clonandoli, moltiplicandoli, giocando con le loro età, le identità, i garbugli di sentimenti e desideri che nominalmente si declinano e verbalmente si coniugano oltre lo spazio e il tempo della narrazione. Kore’eda vola altissimo, sfreccia nei cieli purpurei della ridondanza, sbroglia simmetrie e dipana sottigliezze in costanti strizzatine d’occhio a qualcos’altro che è stato fatto prima. O che comunque, parlando di fantascienza dei rapporti umani, tornerà a ripresentarsi uguale a se stesso o con infinitesimali variazioni. C’è tutto il prontuario del citazionismo colto: l’armamentario di Olivier Assayas a giustificare il teatro dentro il teatro, anzi il cinema nel cinema in un gioco di specchi in cui le prospettive si confondono e i linguaggi si contaminano in un processo di puro piacere onanistico; l’immancabile veritasTruffaut di Effetto notte (1973), la retroguardia della Nouvelle Vague e dei suoi giovani turchi sbandierati come implumi soldatini sul fronte dell’impegno. Ne parlavamo, di questo infantilismo, per gli ultimi lavori di Claude Lelouch, ipotenusa di un ideale triangolo con Iosselliani e Zulawskia a far da cateti, e li si giustificava persino, costoro, perché da vecchi si torna un po’ bambini. Ma Kore’eda è invece un giovane che pensa da vecchio e cita sfacciatamente i vecchi travestiti da giovani. Le verità, con i suoi premi mancati sul lido veneziano e le lacrimucce da pubblico conformista, è cinema sepolcrale, di un’epoca antica che scomoda la fantascienza metacinematografica per darsi arie di superficiale rinnovamento. Catherine Deneuve ha d’altronde la stessa età del pubblico di Kore’eda, che è quello di Lelouch e della sua generazione di vecchi cimeli nostalgici del nulla. Nasi rubizzi e faccia rugosa, e nessun volto adolescente. Peccato, perché accanto ai vecchi che si fingono giovani, vi sono gli attempati che giovani lo sono per davvero, nella testa, nello spirito, nell’intraprendenza. Sylvester Stallone, settantatré anni. È lui il vero maestro dell’attuale stagione cinematografica. È lui l’unico, il solo, inimitabile Rambo che ancora ha il privilegio della distribuzione nel multisala, che ancora intercetta le platee del pubblico young offrendogli proprio ciò di cui il cinema dovrebbe farsi alfiere e vessillifero: l’anarchia, il sangue, il piacere. L’arte è libera quando non ha regole, quando il sogno si fa senza margini e desidera per il solo fatto di poter desiderare. Quello di Kore’eda è invece il sintomo di una generale involuzione, di una ingessatura del pensiero che illanguidisce nei colombari dell’arte impegnata. O meglio d’essai, così il pubblico non si accorge che gli si sta vendendo una bara con tanto di paletto di frassino.

Marco Marchetti

Le verità

Sceneggiatura, regia e montaggio: Hirokazu Kore-eda. Fotografia: Eric Gautier. Musiche: Alexei Aigui. Interpreti: Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Ludivine Sagnier, Roger Van Hool, Jackie Berroyer, Laurent Capelluto, Maya Sansa. Origine: Francia/Giappone, 2019. Durata: 106′.

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