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Il cinema saluta William Hurt

William Hurt è l’unico attore (uomo) di cui mi sia davvero innamorato. Avevo 15 anni, un’età in cui, all’epoca era il 1985, certe sensazioni potevano trovare solo la solitudine dei tabù. Avevo visto Gorky Park con mia madre, che aveva letto il libro pubblicato tra gli Oscar Mondadori. Forse il mio sguardo si confuse con il suo, ma l’ispettore Arkadij Renko entrò nel mio immaginario con quella carica erotica e seduttiva che genera identificazione più che attrazione fisica, ovvero un desiderio che potesse vestirmi di quell’immagine più che abbracciarla come un corpo da possedere. Poi vidi Brivido caldo e Il bacio della donna ragno, che gli consegnò un meritato Oscar, e la sensazione che Hurt fosse il mio attore crebbe ma con una consapevolezza diversa, senza il “pericolo” dell’omosessualità latente. Mi piaceva e basta, il suo modo di occupare il set, di muoversi, di ammiccare con gli occhi, di interpretare l’inganno che ogni attore infligge al suo pubblico. E dopo aver visto Stati di allucinazione, il film che lo lanciò – finalmente Stati di allucinazione, di cui lessi su Omni Magazine, rivista di culto degli anni 80 e oltre – Hurt diventò il simbolo del corpo lisergico, l’eroe delle esplorazioni impossibili su cui costruire ogni viaggio mentale.
Doveva compire 72 anni tra una settimana Hurt, aveva dimostrato una versatilità fuori dal comune, passando dal noir alla commedia, dal fantasy al melodramma, Figli di un Dio minore Dentro la notizia lo consacrarono definitivamente, non una meteora ma un pianeta stanziale nell’universo di Hollywood e di tanto cinema d’autore: Kasdan, Allen, Wenders, Minghella, Zeffirelli, Szabo, Proyas, Shyamalan, Hopkins, Penn, Cronenberg, Spielberg, ma la lista sarebbe lunghissima, nei ruoli più disparati, fascinoso anche nei ruoli del cattivo, come in A History of Violence.
Ci mancherà Hurt.

Alessandro Leone

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