Premiato con la Palma d’oro all’ultima edizione del Festival di Cannes con il Un semplice incidente, Jafar Panahi è oggi uno dei più importanti registi al mondo. A questo magnifico artista e al suo ultimo film, dedichiamo questa pubblicazione speciale a più voci.
Un’opera sorprendente
Se c’è un regista simbolo dell’importanza del cinema come arma di resistenza e di racconto della società quello è Jafar Panahi: un uomo che per i suoi film è andato in galera, che continua a combattere contro il regime iraniano ed è costretto a compiere il suo lavoro in clandestinità. Sono 20 anni (dai tempi de Il palloncino bianco) che Panahi ci racconta l’Iran, eppure ogni suo film sembra aggiungere un ulteriore tassello alla sua splendida filmografia; non fa eccezione Un semplice incidente, premiato con la Palma d’oro all’ultima edizione del Festival di Cannes. Quest’ultimo riconoscimento rende il regista iraniano vincitore dei principali festival europei: Leone d’oro a Venezia (per Il cerchio), Orso d’oro a Berlino (per Taxi Teheran) e Pardo d’oro a Locarno (per Lo specchio).

Il film parte da una premessa che rispetta completamente il suo titolo: un’automobile investe un cane, il guidatore scende e chiede aiuto ad un’officina lì vicino per sistemare il banale danno. Ma da una situazione così innocua comincia a scatenarsi una serie di eventi assolutamente imprevedibili, con un vortice di ricordi, idee ed errori che investirà tutti i protagonisti in scena. Il film ha il grande merito di unire generi e registri diversi, in particolare stupisce il grande utilizzo dell’umorismo nero messo in scena: nonostante alcune situazioni messe in scena siano decisamente tragiche, Panahi utilizza il grottesco per raccontarci il dramma di una serie di personaggi accomunati da un passato traumatico. È un film ricco di metafore e simbolismi che ci raccontano un intero paese e che funziona soprattutto per la magistrale costruzione di tutti i personaggi protagonisti.
Un semplice incidente è un revenge movie in piena regola, in cui la vendetta trasforma e corrode tutti quelli che si trovano nelle possibilità di poterla compiere, ponendoci davanti grandi dubbi morali. Inoltre, il regista non dimentica mai un sapiente utilizzo della macchina da presa, soprattutto nell’ultima parte: un lungo piano sequenza che mette a nudo tutta la verità sulla vicenda e che lascia a bocca aperta.
Andrea Porta
In un paese prigione
Nel 1995 un giovane regista iraniano, Jafar Panahi, portò al Festival di Cannes il suo film d’esordio, Il palloncino bianco, che vinse la Caméra d’or per la miglior opera prima ed ebbe una buona circolazione internazionale. Due anni dopo il regista vinse il Pardo d’oro di Locarno con Lo specchio. Erano gli anni in cui l’Occidente stava scoprendo il cinema persiano, soprattutto grazie alle opere di Abbas Kiarostami. Trent’anni dopo Panahi ha ricevuto la Palma d’oro di Cannes, completando una sorta di Grande Slam degli storici festival di cinema riuscito in precedenza solo a Michelangelo Antonioni, dopo avere vinto Venezia (Il cerchio nel 1999) e Berlino (Taxi Teheran nel 2015). A Panahi è stato attribuito anche il 7° Citizenship Prize da parte di una giuria parallela.
Altre volte il cineasta aveva ottenuto riconoscimenti e in tante occasioni dimostrazioni di affetto e vicinanza da parte delle rassegne, quando era stato richiuso o gli era stato tolto il passaporto per lasciare l’Iran. Tante volte il
Festival di Cannes aveva tenuto una poltroncina rossa vuota in suo onore, quando era stato impossibilitato a espatriare dal regime del suo Paese. Eppure il regista iraniano aveva continuato a girare, con la collaborazione di colleghi, di nascosto ambientandoli in automobile e facendo uscire clandestinamente i film finiti. All’annuncio di aver vinto la Palma d’oro della 78^ edizione, il cineasta si era potuto sprofondare incredulo nella poltrona, prima di salire emozionato sul palco per ritirare il premio dalle mani di Cate Blanchett e della presidente di giuria Juliette Binoche.
Nel breve discorso sul palco, dopo i ringraziamenti, Panahi si era rivolto ai suoi connazionali: “Vi chiedo di mettere le differenze da parte, perché la cosa più importante sono il nostro Paese e la libertà del nostro Paese. Arriviamo a fare in modo che nessuno ci dica cosa indossare, cosa dire e cosa possiamo fare”. Parole semplici e decise che vanno al nocciolo della questione di uno Stato ridotto a un carcere, come il suo bellissimo film afferma con forza.
Il semplice incidente del titolo avviene nel prologo del film che in realtà non è un preambolo, dal momento che è seguito da un lungo flash-back. Una coppia viaggia in auto con due figli dietro, la bambina vuole ascoltare la musica, quando all’improvviso avviene l’imprevisto. Ci si ritrova con il meccanico Vahid che crede di riconoscere per strada Eqbal, l’uomo che l’aveva torturato durante la detenzione con l’accusa di opposizione al regime. Così lo insegue, lo investe in auto, lo rapisce e tenta di seppellirlo vivo in aperta campagna. L’uomo non è però sicuro della sua identità e cerca qualcuno tra i compagni di detenzione che lo aiuti a riconoscerlo. Vahid cerca inutilmente di coinvolgere un libraio, che lo indirizza alla fotografa di matrimoni Shiva che sta preparando il matrimonio di una donna a sua volta reduce dalla prigionia per motivi politici. Con lo sposo e l’altro ex detenuto Hamid, il gruppo gira per Teheran in furgone nascondendo il rapito in una cassa cercando di stabilire la verità.
Panahi esplora la frattura esistente tra i cittadini comuni che aspirano alla libertà e i fedelissimi del regime e i reduci delle sue guerre: non più soltanto chi aveva combattuto contro l’Iraq di Saddam come in tanto cinema
degli anni ‘80, ‘90 e dei primi 2000, ma anche in Siria, come è il caso di Eqbal, che come segno di riconoscimento avrebbe proprio la protesi per rimediare all’amputazione di una gamba. E si chiede quale sia la responsabilità del singolo dentro un sistema repressivo e uno stato di terrore. In un posto dove non ci può essere giustizia, cosa si può scegliere: la vendetta, il perdono o i farmaci (come faceva la sposa Goli) per cercare di dimenticare? È un film sull’impossibilità di fare giustizia, sul cercare di placare l’istinto di vendetta, ma anche rendersi conto che l’Iran è un grande carcere.
Panahi compone un grande film (davvero inutile discutere se sia un capolavoro o il suo più bello) semplice e stratificato, una denuncia del regime iraniano insieme a questioni profondamente universali. È un road-movie, un film di vendetta, un poliziesco con un tocco western, ma pure una commedia (impagabile la scena delle guardie che usano il Pos per incassare i proventi della corruzione, in una realtà in cui tutti chiedono mance per fare le cose). Panahi si conferma maestro nell’alternare e bilanciare i toni, tra Pirandello e Beckett,non a caso i protagonisti citano espressamente Aspettando Godot.
La Palma è il giusto riconoscimento a un grande cineasta, che conosce le diverse potenzialità del linguaggio cinematografico e ha sempre avuto l’intelligenza di realizzare i film giusti al momento nelle condizioni a disposizioni e nonostante i tanti limiti. Panahi è un uomo resistente che ha lottato e lotta contro le ingiustizie. Il premio pure un gesto politico, l’ennesima richiesta del mondo del cinema per un cambiamento in Iran.
Nicola Falcinella
L’urgenza della denuncia
Probabilmente il regista più perseguitato di sempre, Panahi paga da sempre l’aver scelto un cinema sociale, l’intransigenza nel rifiutare l’autocensura e, recentemente, anche l’adesione al Movimento Verde. Il suo cinema racconta dall’inizio le diseguaglianze sociali, le donne iraniane, la mancanza di libertà degli artisti, tutti temi non visti di buon occhio dal regime persiano.
Un semplice incidente è il primo film diretto da Panahi dopo la sua incarcerazione nella prigione di Evin, durata dal luglio 2022 al febbraio 2023, nonché il suo primo da uomo libero dal 2010, avendo il Tribunale rivoluzionario di Teheran fatto decadere in seguito al suo rilascio sia il bando che gli proibiva di realizzare film sia quello che gli proibiva viaggiare all’estero.
Panahi, tutt’altro che ammansito, gira un film in cui la denuncia si fa durissima e dove tornano a galla tutti i suoi
temi con una messa in scena molto più elaborata rispetto agli ultimi film girati quasi in clandestinità.
Il film mette a fuoco una serie di temi etici condizionati sempre e comunque da un fil rouge che vede al centro dei suoi racconti, da anni, la ferocia del governo iraniano. Anche in Un semplice incidente c’è l’urgenza della denuncia di una struttura di repressione, la crudeltà delle detenzioni, le colpe che devono essere pagate. Ma è anche un film sugli esseri umani che hanno subito questa violenza. Panahi non ha dimenticato il carcere, gli interrogatori bendato, i soprusi, e con questo film cerca probabilmente di elaborare quel che ha subito.
È un’opera strana rispetto a certi film precedenti del regista iraniano, anche se ci sono momenti da commedia beckettiana, perciò più tragica che comica, è un film molto più “pieno”, meno sottile e più urlato: sembra quasi che Panahi voglia togliersi di dosso tutto quello che è stato represso da anni. Con questa storia collettiva, quasi inedita nel suo cinema, sembra attivare una specie di analisi di gruppo tra chi ha subito violenza. È un film che si insinua tra quel sottilissimo crine che separa torturati e torturatori in un sistema che fa della paura e della menzogna le sue fondamenta. Se per i persecutori l’individuo non contava nulla, per le vittime innocenti invece cosa è giusto fare? L’essere umano ha ancora un valore?
Panahi racconta tutte le le incertezze, i dubbi e i tormenti delle vittime come in un processo di catarsi dal terrore e dall’odio. Ne esce un film che va assolutamente visto e che, anche se non raggiunge probabilmente le vette di alcuni suoi lavori precedenti, riesce comunque a cogliere nel segno.
Claudio Casazza
Un semplice incidente
Regia e sceneggiatura: Jafar Panahi. Fotografia: Amin Jafari. Montaggio: Amir Etminan. Interpreti: Vahid Mobasseri, Mariam Afshari, Ebrahim Azizi, Hadis Pakbaten, Madjid Panahi. Origine: Iran/Francia, 2025. Durata: 102′.




