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Io, Tonya

tonyaaxelLa storia vera della ex pattinatrice statunitense Tonya Harding. O quasi.
A metà tra biopic e mokumentary, il regista Craig Gillespie (di cui ricordiamo soprattutto il surreale Lars e una ragazza tutta sua) riprende una torbida storia che infangò le olimpiadi invernali del 1994, e in generale lo sport americano, facendone un saggio sull’irrapresentabilità del vero. Co-prodotto da Margot Robbie, che nel film impersona divinamente la campionessa caduta, Tonya non è l’ennesimo film sullo sport dalla parabola scontata, perché questa volta non c’è caduta e risalita, ma un affondamento senza resurrezione.
Cresciuta nella più squallida provincia bianca, figlia di una madre padrona e anaffettiva (interpretata da una irriconoscibile Allison Janney), traumatizzata dall’abbandono del tetto domestico del padre esasperato dalla moglie, Tonya arriva al pattinaggio spinta dal demone materno che vede nello sport l’unico modo per raggiungere fama e denaro. Crudelmente vessata, psicologicamente e fisicamente, ancora minorenne ma già a un passo dall’essere la migliore pattinatrice nazionale, Tonya conosce Jeff (Sebastian Stan) che sposerà nonostante le botte che continuamente le gonfiano il viso. E siccome non sempre da un contesto sfavorevole nasce il campione, nonostante il talento indiscusso che porterà la Harding ad esibire per prima in un campionato mondiale un triplo axel, la banalità delle persone che la attorniano (allenatrice a parte) e la fragilità caratteriale, porteranno la pattinatrice a un rapido declino, accelerato dallo scandalo in cui fu coinvolta dopo che Jeff, in combutta con il mentecatto Shawn, gambizza la rivale in nazionale Nancy Kerrigan.

tonya_madreUna storia di dementi e perdenti così grottesca da non crederci, se non fosse che la vita sa essere più assurda della finzione. Schiacciata da madre e marito, triturata dai mass-media, fragile come un cristallo e in constante ricerca di sguardi e parole amorevoli, negati dal genitore, Tonya Harding si fa specchio di quell’America povera economicamente e culturalmente che ha scommesso sul cinismo per sopravvivere e tentare il riscatto. Non un’America da copertina, dunque, ma da rimuovere, anzi cancellare. Così, in linea concettuale, gli stessi giurati rendono difficile la scalata della pattinatrice, punita costantemente non per le capacità (che sono cristalline), ma per il modello intollerabile che propone. Le origini rozze e un background vergognoso, la scarsa eleganza e il rifiuto di una femminilità morbida (hard rock a supporto delle sue performance, abiti da gara pacchiani), sono in antitesi con l’immagine, magari fasulla e ipocrita, della fidanzatina americana di cui innamorarsi, della figlia che tutti vorrebbero avere. Nancy Kerrigan, appunto.
Gillespie ci arriva a definire il quadro complesso di rapporti familiari, di prevaricazioni e soggezioni psicologiche, che hanno intrappolato Tonya, condizionandone la carriera fino alla trappola che l’ha estromessa dalla Federazione. Ci arriva, il regista, giocando abilmente con la cornice, il falso documentario, e la cronaca, mettendo insieme i racconti parziali dei protagonisti (attori sempre in parte con la Janney che porta a casa l’Oscar) e i fatti che seguirono all’aggressione della Kerrigan. Tutti i protagonisti dichiarano davanti alla macchina da presa, talvolta spezzando la trama per rivolgersi in camera-look allo spettatore, di offrire la loro versione dei fatti, contraddittoria, smentita dalla realtà, giocando come bambini alla bugia o alla verità di comodo, fino all’assurda e malata confessione di Shawn, patologico millantatore, convinto di essere un agente segreto, un tizio a cui non affideresti nemmeno un ciondolo e che invece diventa con Jeff il motore della catastrofe. Personaggi che potrebbero essere stati partoriti dalla mente dei Coen e che invece sono reali.


Il corpo di Tonya segnato da lividi e cicatrici diventa il terminale della follia di chi le è vicino, tanto da farle credere di meritare tanta violenza. Libera sembra essere solo sul ghiaccio, ma fino a un certo punto, quando ancora corre speranzosa su una colonna sonora magnifica, e ogni salto è una dichiarazione di guerra e di sognata indipendenza. Invece l’agguato è dietro l’angolo. In questo Tonya è forse uno dei film che meglio rappresentano la violenza domestica, ancora più drammatico proprio perché innescata in un vortice di menzogne che rende opaca la verità, che disperde anzi la verità nella frammentazione dei punti di vista e nella compassata accettazione della Harding, a quarant’anni suonati, che il destino con lei si è divertita regalandole un solo attimo di felicità vera: un triplo axel che rimane eterno in un fermo-immagine incancellabile.

Vera Mandusich

Tonya

Regia: Craig Gillespie. Sceneggiatura: Steven Rogers. Fotografia: Nicolas Karakatsanis. Montaggio: Tatiana S. Riegel. Musiche: Peter Nashel. Interpreti: Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Julianne Nicholson, Bobby Cannavale, Paul Walter Hauser, Caitlin Carver. Origine: Usa, 2018. Durata: 121′.

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