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Angelo Sterminatore cinquant’anni dopo: l’inferno sono gli altri

Era il 1962 e nelle sale cinematografiche faceva la sua apparizione L’angelo sterminatore, indimenticabile capolavoro di Luis Buñuel. Oggi, dopo esattamente cinquant’anni, questo film magnificamente visionario sembra conservare ancora tutta la sua forza, la sua lucidità onirica, ma soprattutto, insospettabilmente, un’incredibile attualità.

Duplice l’interesse del regista: un’attenzione sottile al mondo dell’inconscio, come prescrive la scuola surrealista, e una riflessione sui rapporti sociali e sulla natura umana. Uno solo il risultato: un film geniale, profondamente dissacrante, che mette a nudo il borghese per mettere a nudo l’uomo, scovandolo sotto le sue buone maniere, la sua educazione, le sue frasi di circostanza. Denudato di tutto ciò che lo rende “socialmente compatibile”, ecco che l’uomo diventa bestia, nonostante l’appello disperato: «Signori, ricordiamoci chi siamo e come siamo stati educati!». Lo scenario del film è essenziale: una casa, una stanza, un gruppo di convitati, una soglia che non può essere varcata, per non si sa quale motivo. Ma proprio in quest’essenzialità riesce ad emergere un dramma impietoso, che è proprio il dramma dell’uomo che è costretto con l’altro uomo, e che nella costrizione fisica cerca di salvaguardare la compostezza prevista dalle norme del buon costume, mentre il corpo già rivela il cedimento, la decadenza, l’animalità che non sa più tacere.
«L’inferno sono gli altri» scrive Sartre in A porte chiuse, e questo sembra volerci dire anche Buñuel, perché è proprio la regola del gruppo, microcosmo di un sistema, l’imperativo della decenza, della cortesia e del buon costume ad imprigionare i protagonisti del film, come d’altro lato è proprio la negazione della nudità emersa, la ricomposizione dei ruoli, il riappropriarsi di una vera e propria etica dell’ipocrisia che consente loro, nel finale, di liberarsi. Cos’è in gioco, se non l’essenziale incomunicabilità dell’uomo con l’uomo, la contraddizione tra l’animale e l’animale sociale, il gioco perverso dell’adeguazione alla regola comune per poter essere, soltanto così, ancora uomo?
L’opera di Buñuel ci sembra dar voce ad una presa di coscienza drammatica e insistente che si sta facendo strada da tempo e che già prima di lui ha trovato espressione. Curioso può essere tracciare un percorso per affinità, rintracciare echi ed intrecci. Tre nomi: Buñuel, Sartre, Moravia. Tre nomi e tre opere che a distanza di anni ripropongono la lacerazione di un dolore connaturato all’uomo, il dolore della costrizione negli stretti e falsificanti limiti della norma comune, tanto imperante da produrre esiti grotteschi, la tragedia silenziosa di rapporti fittizi, di convenzioni consunte e di una vera e propria abitudine alla menzogna, che inesorabilmente soffoca anche gli ultimi residui di spontaneità e sincerità che tutti i personaggi di queste opere, chi più chi meno, ancora sentono. È il borghese di Moravia, preso nella lacerante contraddizione tra la necessità di un atto eroico che spezzi la finzione del suo quotidiano, e la voce dell’impotenza, della rassegnazione dell’uomo che sa di non poter essere tale se non adeguandosi alla norma comune. Così Michele ne Gli indifferenti rivendica il suo bisogno di «appassionarsi, agire, soffrire, vincere quella debolezza, quella pietà, quella falsità, quel senso del ridicolo», ma subito sente anche la necessità della rinuncia: «ma lo sapeva – scrive Moravia – era inutile sperare, quella terra promessa gli era proibita, né l’avrebbe mai raggiunta». Un’educata rassegnazione è la via più comoda e meno dolorosa per poter non essere dei reietti, degli emarginati. Ecco allora che se questi meccanismi si spezzano, per opera di un qualsivoglia angelo sterminatore, l’esito non può che essere caotico e drammatico, specialmente se le regole della vita mondana impongono che l’assurdità della situazione venga taciuta finché possibile e affidata ad un’elegante e contegnosa sopportazione. Così l’aspetto degli ospiti bunueliani, quando viene mattina, è in aperto contrasto, nella sua violenta eloquenza, con la loro compostezza verbale, sintomo dell’ultimo tentativo di aggrapparsi strenuamente alla difesa della forma e delle formalità. Ma gradualmente anche la forma cede e si confessa: «Se non ho detto nulla, è per cortesia» ammette una dei presenti, smascherando e spezzando il tacito accordo fino a quel momento vigente.

Non può dirsi casuale allora, né meramente dettata dal contesto onirico tipicamente surrealista, la scelta del regista di far comparire un orso e un gregge di agnelli. «La bestia! Eccola! Saremo prigionieri finché non lascerà questa casa» esclama uno dei presenti, dando voce alla condanna che li riguarda e che solo ora sembra trovare una spiegazione: il contrasto è tra il dominio dell’istinto e la necessaria, liberante riassunzione dei costumi del gregge, di un’anonimia indifferente e composta. Anche qui, ecco riecheggiare un’eco sartriana: «Se permette un consiglio – afferma Garcin in A porte chiuse – dovremo mantenere tra noi una correttezza estrema. Sarà la migliore difesa». L’unica difesa possibile è la finzione, quella finzione che nella sua quotidianità non si distingue più dal reale, perché, come fa dire Moravia a Michele, «quando non si è sinceri bisogna fingere, a forza di fingere si finisce per credere; questo è il principio di ogni fede». E assumere questa fede come abito, come ethos, sembra allora non soltanto vantaggioso, ma, in definitiva, assolutamente inevitabile.
Se Buñuel ci sembra quindi l’erede di un esistenzialismo che sta muovendo i suoi passi già da qualche decennio, L’angelo sterminatore, in tutto il suo sarcasmo, in tutta la sua ironica tragicità, non sembra per questo segnare il punto di chiusura di un’epoca. Se anche la borghesia di oggi non è più la stessa, se anche le logiche sociali sono cambiate e l’etica del buon gusto ha ceduto il passo troppo spesso ad un’etica del cattivo gusto, forse in fondo il problema resta lo stesso. Nel mutare di canoni e maniere, resta pur sempre vero quel che sentenzia uno dei tre protagonisti di A porte chiuse:  «Il boia, è ciascuno di noi per gli altri due», perché io sono solo nella mia relazione all’altro, soggiacente alle regole di tale relazione, e non posso sfuggire a questa mia condizione.
Un film da guardare ancora, quindi, non tanto per rispetto di un anniversario comunque da onorare, ma piuttosto per riflettere ancora su qualcosa che, per natura, ci riguarda sempre molto da vicino.

Monica Cristini

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