È la giustizia impossibile il tema che lega i primi due bei film passati in concorso al 78° Festival di Cannes. Due pellicole molto diverse, se non per l’amarezza di fondo, che si candidano subito per premi importanti.
L’ucraino Sergei Loznitsa torna in gara con il suo quarto film di finzione, Two Prosecutors, ambientato nel 1937, “nel pieno del terrore staliniano”. Nel prologo un anziano detenuto nel carcere di Briansk (nella Russia occidentale, non distante dal confine ucraino) legge i messaggi che i prigionieri hanno inviato a Stalin chiedendo clemenza e dichiarandosi innocenti. L’uomo ridacchia disilluso leggendo l’espressione “giustizia comunista”, poi li butta tutti nel fuoco. salvando solo un bigliettino. Tempo dopo il giovane procuratore Kornyev si presenta alla prigione per incontrare il carcerato Stepniak, rinchiuso nel braccio speciale, dal quale ha ricevuto un messaggio scritto con il sangue in mancanza di matite o penne. Il direttore si meraviglia di come la missiva sia potuta arriva a destinazione e del perché il funzionario si presenti, cerca di dilazionare con varie scuse, di spazientire il magistrato e farlo desistere. Ma Kornyev crede nella giustizia, nel partito e nel comunismo, crede di poter raddrizzare le storture e non si arrende. Riuscirà a incontrare Stepniak, a vedere i segni delle torture che ha subito, ascoltarne i racconti scioccanti e rendersi conto di ciò che sta accadendo.
Two Prosecutors è, come sempre per Loznitsa, un film curatissimo (il direttore della fotografia è il fido Oleg Mutu), con inquadrature fisse che rendono come meglio non si potrebbe il non poter sfuggire a un destino segnato. Il sistema non si può raddrizzare dice Loznitsa, che mette piccoli busti di Stalin e Lenin ovunque. E tra le righe si può leggere il parallelo tra Stalin e Putin.
Si passa a Parigi, nel novembre 2018, mentre sono in corso le manifestazioni dei gilet jaune, per Dossier 137 di Dominik Moll. Stéphanie Bertrand (Léa Drucker) è una poliziotta dell’Igpn, che conduce indagini sui colleghi colpevoli di reati. Un compito ingrato che l’inquirente prende molto sul serio: non si tratta di accusare la polizia, ma di difenderne la dignità e l’immagine. Dopo una protesta si presenta nel suo ufficio la signora Girard, che denuncia il ferimento del figlio Guillaume con un colpo di pistola alla testa in una strada laterale degli Champs-Èlisées. Il giovane è ricoverato in ospedale in gravi condizioni e non può essere interrogato, mentre il fidanzato della sorella che era con lui è stato arrestato poche ore dopo. L’ispettrice richiede verbali, immagini di tutte le videocamere dei dintorni e cerca testimonianze: mette insieme gli elementi a uno a uno, con scrupolo e determinazione e riesce a risalire alle squadre di agenti in servizio in quella zona, ma gli interrogati negano ogni coinvolgimento. L’ostinata Bertrand troverà un’altra testimone nella cameriera Alicia (interpretata da Guslagie Malanda, l’accusata di “Saint Omer”), che faticherà a convincere perché non crede alla giustizia dei bianchi.
Come nel precedente La notte del 12, Moll (già in concorso a Cannes nel 2000 con Harry, un amico vero) costruisce un bel polar, asciutto, teso, preciso, che ha in comune con l’altro film la protagonista sempre sul filo pericoloso del coinvolgimento personale. La poliziotta vive con il figlio adolescente Victor (che le dirà che “tutti detestano la polizia”) e un gattino trovato in garage. È separata dal marito, anch’egli poliziotto della narcotici e per questo si è fatta trasferire. La famiglia Girard, che ha partecipato unita alla protesta di piazza, risiede invece nella cittadina di provincia dei genitori di Stéphanie, chiudendo una sorta di cerchio. Sia gli immigrati sia i francesi delle classi meno agiate o di fuori Parigi non credono nella polizia e nella giustizia, sono convinti di non essere protetti, che non sia una cosa per loro. Sull’altro fronte ci sono i poliziotti, che avevano ricevuto l’ordine di “difendere la Repubblica” con qualsiasi mezzo e hanno lavorato sotto pressione, senza una preparazione specifica. La questione si fa ancora più complicata perché sarebbe implicato il reparto dei Bri, gli “eroi” del Bataclan, difesi a spada tratta dal sindacato di categoria.
Il film di Moll racconta l’impossibilità della giustizia con una sorta di rassegnazione, si chiede come si eserciti e se qualcuno possa essere al di sopra della legge. Solo marginalmente ci sono le ragioni dei gilet gialli perché la pellicola va in altre direzioni e fa pensare anche ai fatti del G8 di Genova.
Ma non basta per la giustizia (hanno sparato in due e non è possibile individuare chi).
Poliziotta che fa bene il suo lavoro. Separata da marito, che è nella narcotici: lei si è fatta trasferire. Molto è affidato all’interpretazione della bravissima Drucker, che si candida subito per il premio di migliore attrice, ma l’intero cast è buono.
Il pessimismo avvicina il regista francese a Loznitsa, ma se Moll guarda le storture (almeno si spera, in una democrazia), l’ucraino denuncia il sistema in toto.
da Cannes, Nicola Falcinella