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Parasite

parasite2Ci sono scantinati e scantinati. Quelli in cui vivono intere famiglie, con finestrini a livello dei gas di scarico e cessi così prossimi al soffitto che diventa un’impresa defecare; e scantinati ordinati che tengono in fresco bottiglie di vino buono per opulente cene a lume di candela. Le due Coree di Bong Joon-ho non sono quelle divise dal 38° parallelo, ma quelle che vivono sopra o sotto il livello stradale. Un’umanità divisa per classi, come nel treno che attraversava il pianeta ghiacciato in Snowpiercer (2013): in testa le carrozze dei super ricchi e in coda la quarta classe abitata dai miserabili. Parassiti gli uni, parassiti gli altri: i ricchi perché non esisterebbero senza i poveri, i poveri perché così vengono etichettati dai ricchi, e perché, costretti in spazi angusti a procacciarsi poche briciole per sopravvivere, finiscono per somigliare a scarafaggi. Se la ribellione degli abitanti delle carrozze di coda in Snowpiercer diventava una lotta rivoluzionaria fino alla ghigliottina, in Parasite Bong Joon-ho torna a una dimensione domestica, la cellula che descrive l’organismo, come fu in The Host (2006) ma con la mediazione di un mostro anfibio.
La famiglia di quattro persone che in Parasite scivola in una villa borghese, occupando poco alla volta posizioni di supporto ad altrettante quattro persone della famiglia ospite (il padre autista,parasite1 la madre governante, i figli come aiuto scolastico agli altri figli), non ha nessun impianto ideologico a sostegno, semplicemente la voglia di vivere in spazi riservati a “loro”, quelli di rango superiore che siedono su comode poltrone e riempiono frigoriferi a parete più per un ordito del destino che per meriti. Ki-woo e la sorella Ki-jung hanno studiato ma scontano il dramma della crisi economica. Con i loro genitori vivono di espedienti. Quando Ki-woo, il maggiore dei figli, apre una breccia nella villa dei signori Park, l’idea di un diritto al benessere, sopita sottotraccia, sale lentamente come una febbre influenzale, senza per questo diventare slogan rivoluzionario.
Film dall’impianto complesso sia dal punto di vista narrativo, con continui colpi di scena, che da quello estetico, con immagini curatissime e polisemiche, tanto da moltiplicarne i significati dalla superficie alla profondità, Parasite riflette con lucidità non solo sul conflitto di classe (ampiamente sviscerato nei titoli che precedono quest’ultima fatica premiata a Cannes con la Palma d’Oro), ma sulla possibilità di essere qualcun’altro per poter guardare il mondo da un punto di vista inedito. parasite3Basti la metafora delle finestre: quella angusta che permette a Ki-woo e famiglia di affacciarsi all’esterno, un buco rettangolare oltre il quale va in scena sovente lo spettacolo di un ubriaco che urina su un palo a mezzo metro da casa; in contrasto evidente con l’enorme apertura in vetro che mette in comunicazione casa e parco nella tenuta signorile dei Park. Come dire: il 4:3 che si confronta con la meraviglia del cinemascope. Il desiderio di allargare lo sguardo su traiettorie orizzontali si schianta con l’impossibilità di percorrere la verticale della scala sociale. E infatti quando i membri della disgraziata famiglia, dopo essere stati regolarmente assunti senza peraltro aver rivelato i legami di parentela, rimangono soli negli spazi eleganti della villa e giocano a fare i ricchi (mascherata che aprirà poi a una sorprendente svolta narrativa), interverrà la malasorte a mortificare desideri, ambizioni, velleità. Il godimento per il reietto che si identifica nell’aristocratico non può che essere effimero, e l’umiliazione che ne segue è più che un ammonimento: rientrati anzitempo da una gita i padroni di casa, il pater familias, nascosto sotto un tavolo, è costretto a strisciare silenzioso come un insetto, dopo l’inaspettata riappropriazione degli spazi da parte dei legittimi proprietari.


Con Burning di Lee Chang-dong, uscito a poche settimane di distanza, Parasite condivide l’asprezza con cui guarda alla ripugnante vanità delle classi agiate, ancor più che nelle opere precedenti, dove, da Memories of Murder in poi, la critica si faceva scoperta parafrasi della politica. Ma a differenza del film di Lee, l’ironia smaccata che ha sempre caratterizzato Bong colpisce tutti, senza distinzione, forti (o presunti tali) e deboli (o presunti tali), anche quando il micro universo definito dai muri di cinta della villa viene disfatto come accadeva nei film di Stanlio & Ollio, cioè attraverso la forza distruttrice e un po’ infantile di personaggi non allineati su morali condivise. Una forze primordiale, caotica, per questo sanguinaria: sangue al posto della panna delle torte in faccia. I parassiti come il Joker di Todd Phillips ma senza il paracadute del fumetto.

Alessandro Leone

Parasite

Regia: Bong Joon-Ho. Sceneggiatura: Kim Dae-hwan, Bong Joon-Ho, Jin Won Han. Fotografia: Hong Kyung-pyo. Musiche: Jaeil Jung. Interpreti: Hye-jin Jang, Kang-ho Song, Lee Sun-kyun, Cho Yeo-Jeong, Choi Woo-sik, Park So-dam. Origine: Corea del Sud, 2019. Durata: 132′.

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